giovedì 10 settembre 2015

Diario di un (nuovo) abbonato Sky #2 - o'pernacchio

Che la concorrenza sia la spinta essenziale per il buon mantenimento di un mercato è innegabile, è così da sempre. Cercare di proporre qualità esclusive dei propri prodotti è il quid indispensabile per accaparrarsi una determinata fetta di pubblico in qualunque ambito e la pay per view, che è il principale tema di questa rubrica, non fa eccezione.

In questo post cercherò di sviscerare tutta la recente diatriba Sky-Mediaset in tutti i suoi punti e proverò a motivare il pensiero che mi porta a dire che la prima abbia fatto centro su tutta la linea. Premetto che non sono uno che si diverte a fare beffe degli altri perché usano un prodotto piuttosto che un altro, perché è innegabile che vi siano dei (pochi) motivi ben validi per possedere Premium/Infinity, e quindi quanto scrivo è da riferirsi a come l'una e l'altra hanno parlato al loro (e non solo) pubblico negli ultimi anni. Ma ora basta con i preamboli e partiamo con la ciccia, vi invito come sempre a clickare i link.

Parte 0 - Guida Galattica per Pubblicitari
Questo piccolo trafiletto introduttivo serve esclusivamente come disclaimer per permettervi di ricordare delle differenze sostanziali del tipo di comunicazione pubblicitaria delle due aziende: Mediaset segue, da sempre, la tipica politica aziendale dell'accompagnamento dello spettatore nelle fasi della sua vita promettendo lo stesso tipo di cura "tradizionale" ma con uso di tecnologia via via sempre più avanzate spingendo quindi l'acceleratore sull'emozione; Sky, invece, ha sempre preferito un approccio meno fidelizzante nel senso più fine a sé stesso possibile, puntando piuttosto sulla qualità del prodotto singolo che sul valore generico. Queste precisazioni, di qui in avanti, verranno sempre prese per scontate (perché linkare tutte le pubblicità di tipo 10 anni di battaglie mi pareva eccessivo).

Parte 1 - "L'età della pietra" o "dove ti infilo il decoder" 
Quando Premium, servizio a pagamento integrato nell'offerta di quel digitale terrestre tanto voluto da Silvio Berlusconi per non meglio specificati motivi, è stato lanciato nel 2005 tutti gridarono al miracolo: Mediaset, colosso indiscusso della tv tradizionale, avrebbe lanciato il guanto di sfida all'impero di Rupert Murdock pronta ad impossessarsi anche di quel settore di televisione su cui non si era ancora posata la coda del biscione. Era fatta, ormai più nessuno avrebbe ceduto alle lusinghe della parabola perché il servizio non solo era compatibile con ogni televisione, di lì a pochi anni dopo, obbligatoriamente posta in casa agli italiani ma proponeva i contenuti di successo che attirarono gli utenti verso Sky e molti altri in esclusiva. La realtà? I programmi e gli show esclusivi erano pochissimi (e torneremo più avanti sull'argomento) e quelli su licenza Fox/Sky erano soltanto quelli più famosi e non tutto il pacchetto. A questo va aggiunta anche una "minuscola" clausola: il solo decoder (integrato o no) del digitale terrestre non bastava (e non basta tutt'ora) a far funzionare la smart card di Premium ma era (ed è ) necessario un modulo (costoso) aggiuntivo. Sì, è vero, questo si può dire allo stesso modo per la parabola ed il decoder necessari per vedere il servizio satellitare; peccato che quest' ultimo metta ben in chiaro ogni singolo parametro fondamentale alla visione.
Di tutto questo, fallimentare, tentativo di Mediaset il concorrente accusò comunque il colpo e dovette correre ai ripari. Come? Rispolverando il tentativo di portare in Italia, questa volta in maniera intelligente, tecnologia che negli USA esisteva da una decina di anni: la tv on-demand.

Parte 2 - "L'età del ferro" o "su richiesta"
Nata inizialmente come parte di un contratto, ancora attivo, con il gestore telefonico Fastweb la possibilità di registrare, scaricare, mettere in pausa e riguardare i propri programmi preferiti arrivò in Italia grazie a Sky. Inutile dire che, nonostante ci abbia messo parecchio tempo a risalire il fiume, il cosiddetto "MySky" fu un successo gigantesco e che quindi toccò a Finivest rispondere per le righe: come? Semplice: copiando, di nuovo, la scelta di Sky. Spuntò sul mercato quindi Premium On Demand, un decoder creato da Telesystem (leader del settore in Italia e nel mondo capitanata dallo stesso CDA di Premium) che emula i servizi offerti dalla controparte. Meglio? Peggio? Presto detto: per far funzionare bene qualcosa bisogna avere effettivamente qualcosa da proporre e come sappiamo la proposta non era delle migliori. Fate i vostri conti.

Parte 3 - "L'età del bronzo" o "te lo do io il web"  
Piersilvio Berlusconi e soci, quindi, dovettero correre ai ripari e proporre qualcosa di veramente avveniristico. Venne così l'idea di "Premium Play" un servizio che voleva cavalcare l'onda del successo dello streaming illegale proponendo, però, un'alternativa legale e, ovviamente, a pagamento che permetteva agli utenti maggiore qualità e sicurezza rispetto ai vari Megavideo e similari. Di lì a poco la risposta di Sky: Sky GO. Stesso principio, stesse piattaforme, maggiore proposta e qualità.

Parte 4 - "L'età dell'argento" o "come Netflix, solo peggio"
La ferita nel cuore della famiglia Berlusconi ormai si faceva sempre più profonda: sempre più persone si accorgevano che l'unico motivo per rimanere fedeli al servizio Premium fosse il calcio, Mediaset ci metterà ancora qualche anno, e quindi iniziavano via via la migrazione verso il concorrente. La situazione non piaceva affatto all'azienda che tentò un altro disperato slancio in avanti: Infinity. Sulla falsa riga del servizio americano Netflix, Mediaset creò una piattaforma multi-dispositivo di streaming che però si discostava dalla precedente "Play": qui, infatti, a farla da padrone erano serie-tv e film da sempre grande tallone d'Achille di Premium. Il risultato, però, non fu per niente positivo: la rosa dei titoli è ancora oggi molto risicata e il servizio è decisamente costoso per quello che offre. Sky, spinta dalla paura sempre crescente di vedere Netflix in Italia (paura che si concretizzerà ad Ottobre, per altro)  più che dal timore di vedersi superare da Infinity, propose anch'essa un servizio simile ma con modalità di accesso più chiare e capillari del concorrente: Sky Online. Per il momento, nonostante l'ampia possibilità di esecuzioni su un range di dispositivi altissimo, il servizio non ha un granché successo per via dei costi che non invogliano a preferirlo al normale Sky su satellite.

Parte 5 - "L'età dell'oro" o "PRRRRRRRRRRRRRT"
E qui, nel paragrafo finale, si concretizza il titolo e più o meno tutti i pensieri del post. Partiamo con ordine dall'evento più vecchio agli ultimissimi avvenimenti elencandoli:

  1. Mediaset annuncia la Champion's League in esclusiva su Premium fino al 2018 accorgendosi giusto un pelino in ritardo quale fosse l'unico vantaggio che avevano gli abbonati a rimanere
  2. Mediaset avvia una campagna martellantissima e con il solito leit-motiv di cui alla parte 0 per spiegare questo contratto di esclusività e dire che loro sono i più meglio assai
  3. Sky, in linea con la strategia aziendale di estendere il più possibile il bacino di utenza e di proporre il prodotto per quello che è esaltandone le qualità e non i valori che concede si prende una sfilza di contenuti sportivi uno dietro l'altro pubblicizzandoli in maniera esemplare: serie b di calcio, europeo di basket, motomondiale, mondiale F1, mondiale di rugby sono visibili, prima degli altri, solo su satellite.
  4. Mediaset si arrabbia un sacco e, qualche giorno fa, oscura i suoi 3 canali tv principali su satellite.
  5. Sky tira una pernacchia gigantesca a Mediaset: sostituisce i 3 canali con contenuti proprietari e avvia una campagna incisiva per sponsorizzare la sua digital key (una chiavetta USB con decoder digitale terrestre integrato) e farla avere a coloro i quali volessero continuare a vedere Rete 4, Canale 5 e Italia 1 usando comodamente un unico decoder. Ovviamente vendendo si guadagnano dei soldi, quindi fate i conti voi.

Quindi, infine, posso dire che reputo che la strategia di vendita del prodotto e non del valore che genera sia vincente; e direi che i fatti parlano per me. Vi prego di non intendere quanto scrivo come un atto di bieco fanboyismo, perché come ho scritto i motivi per restare a Premium ci sono e li capisco (ma non li condivido).

-Luca

mercoledì 1 luglio 2015

Diario di un (nuovo) abbonato Sky #1 - La narrazione nei reality show

Si, è vero, questa cosa degli aggiornamenti del blog inizia a sfuggirmi di mano. La verità, e questa volta non mi sbaglio per cui non serve che io scomodi il condizionale del titolo di questo sito, è che sono un procastinatore nato e mi viene troppo facile rimandare le cose.

Per ciò quale sarebbe la cosa più in linea con il tratto distintivo della perdita di tempo se non quello di aprire un nuovo angolo tematico invece di sviluppare quelli pre-esistenti? Niente, per questo apro una nuova rubrica. Si chiama "Diario di un (nuovo) abbonato Sky" ed è una serie di analisi, illogiche e sproloquianti, e pensieri, sconnessi e deliranti, che ho accumlato sdraiato sul divano in diverse ore della giornata durante la manciata di mesi da quando la mia famiglia ha firmato e successivamente attivato un abbonamento alla piattaforma satellitare Sky. In questa prima puntata vi parlerò un po' di tutta una serie di tratti comuni delle sceneggiature del vero fenomeno del palinsesto, non solo sul satellite: i reality show.

Siano essi pre-registrati o in diretta, documentaristici o rappresentati una competizione la prima volta che ci si sintonizza sul canale principale di Sky, Sky Uno (e a fargli compagnia ci sono anche Fox Life e praticamente tutti i canali di documentari oltre che gli a me già conosciuti, arrivando da un passato a base di Digitale Terrestre, Real Time e DMAX di Discovery), si viene letteralmente invasi da questi prodotti che sorprendono prima di tutto per la cura estetica certosina e poi per la loro varietà. Ci si accorge, però, che piano piano vengono fuori tratti comuni; questi prodotti, infatti, seppur non sempre rassomiglianti per quanto riguarda temi o contenuti, sono praticamente sempre scritti e montati allo stesso modo. 

Parte 1 - "It's all about the empathy"
Stando alla definizione fornita da una eminentissima fonte l'empatia, nella comunicazione, è la "capacità di coinvolgere emotivamente il fruitore con un messaggio in cui lo stesso è portato a immedesimarsi"; non serve che io spenda parole sulla valenza voyeuristica della televisione e di quanto questo genere di programmi rappresenti la quintessenza di questa tendenza perché mi pare che sia un argomento sufficientemente discusso, trattato e conosciuto da chiunque.
Viene da sé, quindi, il comprendere come i reality show scelgano deliberatamente di proporre situazioni normali, agevoli, che permettano allo spettatore di immedesimarsi anche se completamente estraneo al tema (e al suo target abituale) del programma. Situazioni settorialmente specifiche ma rese normali per gente normale con un pizzico di mode cavalcate (qualcuno ha detto "food"?) rappresentano gli ingredienti per la ricetta perfetta per raggiungere il successo in questo settore. 
Tutto questo si traduce in lunghi focus riguardanti il contesto delle persone coinvolte durante una puntata, in maniera tale che lo spettatore riesca ad individuare specifici tipi psicologici di base (che quindi devono essere il più possibile generici e ridotti all'osso) ed eventualmente immedesimarcisi o, nel caso in cui non vi si riconosca, trarre il proprio giudizio nella maniera più rapida ma al contempo precisa possibile. Sembrerà un discorso banale, poiché come già detto in precedenza compreso, discusso e sviscerato da chiunque in qualunque occasione, ma è un punto di partenza essenziale per la comprensione integra di questi programmi perché senza questo preambolo ognuna delle cose che andrò a vedere successivamente non avrebbe un significato.

Parte 2 - Il confessionale asimmetrico
In funzione dell'empatia e del conoscere meglio i protagonisti di una trasmissione fino a qualche anno fa, quando proliferavano i reality esclusivamente in diretta (del tutto scomparsi ora e convertiti in ibridi che alternano fasi dal vivo ad altre pre-registrate), il contatto con l'intimità del singolo era fondamentale per il successo di una trasmissione. Con il passare degli anni e con il cambiamento delle abitudini dello spettatore medio e del formato stesso di questi programmi, però, anche il format più classico con cui stabilire il contatto di cui sopra, il confessionale, è andato a modificarsi: durante lo svolgersi della puntata, invece di avere intervalli in presa quasi diretta e senza montaggi in cui la persona commentava in semi-libertà gli avvenimenti, vengono inseriti spezzoni registrati in seguito, presumibilmente tutti insieme come ultima parte delle riprese, nei quali i concorrenti (o i protagonisti) commentano passo passo le loro gesta quasi come se fossero voci fuori campo.
In questo modo si stringe un patto empatico ancora più forte con il pubblico data la compresenza (nella messa in onda) tra confessione e atto.  

Parte 3 - Sotto i riflettori
Questa parte può risultare, lo ammetto, meno funzionante delle altre, perché si basa fondamentalmente su uno spoiler auto-indotto dal sottoscritto: ho provato a guardare uno show, The Quest, sapendo già dalla prima puntata chi avrebbe vinto per testare quanto la scrittura e la narrazione della trasmissione (e in generale di questo genere) suggerissero la vittoria della persona che effettivamente raggiunge tale obiettivo. Ho notato, e non è un caso perché me ne sono accorto anche con altri programmi visti successivamente senza aver fatto quel processo di auto-induzione, che esistono fondamentalmente due metodi: quello dell'outsider, che viene posto sotto l'attenzione dello spettatore mano a mano grazie anche ad un'impresa particolarmente esaltante, e quello del fuoriclasse, che suggerisce allo spettatore fin da subito dell'alta probabilità di vittoria del soggetto.
Possiamo quindi dire che questi metodi permettano in linea di massima di capire chi potrebbe vincere un reality dalla prima puntata? No, non sempre, perché spesso vengono proposti (come mi è capitato di vedere nella seconda stagione di Top DJ) episodi utili a cancellare ogni possibile certezza di aver capito chi vincerà in chi guarda e per evitare, quindi, che egli capisca che se non tutto almeno parte dell'episodio che sta guardando è stato montato a cose già concluse da tempo, e quindi sottoposto alla sua attenzione qualche periodo dopo l'effettiva fine della competizione, ed in funzione di portarlo ad intuire chi abbia più possibilità di vittoria.

Parte 4 - Carrelata
Uno dei momenti sicuramente più seguiti, insieme alle finali, di questi programmi sono le audizioni o in generale tutti quei momenti preparatori che accompagnano lo spettatore verso la trasmissione vera  e propria. Carrelate dal ritmo serratissimo che si rilassano in maniera, appratentemente, imprevedibile su alcuni concorrenti per mostrare le loro esibizioni. Siano esse positive, quindi atte a far pensare agli spettatori che quello specifico concorrente abbia possibilità di vittoria, o negative, che mettono alla berlina il concorrente e fanno ridere lo spettatore che renderà virale quella performance; la selezione di questi momenti di distensione nel ritmo sempre piuttosto concitato delle fasi preliminari di un programma è strettamente collegata a ciascuno dei punti visti in precedenza e va a concludere l'analisi della focalizzazione empatica della narrazione nei reality show contemporanei.



PS: So benissimo che quanto scritto qui non sia quanto di più leggero al mondo, soprattutto contando l'estrema leggerezza del tema, e che l'assenza di immagini appesantisca ulteriormente quanto da me scritto ma ho scelto di proposito di pormi in maniera più seriosa all'argomento, spero non vi dispiaccia.

-Luca





giovedì 28 maggio 2015

Cronache Ludiche #1 - Pandemia

Sono passate diverse settimane, forse abbiamo anche superato il mese, da quando ho scritto l'ultimo post qui sul blog e mi sembra di aver fatto passare sufficiente tempo per poter scriverne un altro, introducendo un nuovo tema ai già parecchi che tratto qui.
Oltre che inserire un nuovo argomento ho intenzione di, contestualmente ad esso, creare uno spazio regolare; quasi come se fosse un format. Mi è venuto così in mente "Cronache Ludiche" serie di pensieri a ruota libera su giochi da tavolo che ho provato una volta sola e su cui mi va di spendere qualche parola. Protagonista di questa puntata è Pandemia (Pandemic in originale) di Matt Leacock, gioco cooperativo a tema medico per 2-4 giocatori edito da Zman e pubblicato in Italia da Asterion Press.

Prima di iniziare ad analizzare il gioco nello specifico, con i suoi componenti e le sue regole, bisogna risolvere un quesito: come fa un gioco da tavolo ad essere cooperativo?Semplice; tutti i giocatori giocano "contro" il gioco e collaborano per raggiungere una vittoria comune che, se non venisse raggiunta, porterebbe alla sconfitta dell'intero gruppo. Il cardine di Pandemia, come di ogni gioco di questo genere, è quindi lavorare per il bene comune anzichè per il proprio in ordine di vincere tutti insieme.

Come anticipato poche righe fa il tema dietro all'opera di Leacock è di tipo medico: 4 epidemie stanno attaccando il pianeta e tocca ad una equipe di esperti (di ruoli differenti) salvare capra e cavoli girando il mondo e bonificando uno ad uno i focolai delle diverse malattie. Non mi dilungherò oltre a parlare del regolamento del gioco (anche perché è facilmente recuperabile online) quanto piuttosto preferisco parlare delle sensazioni che l'esperienza che ho avuto su questo titolo mi ha donato. Ma prima diamo uno sguardo rapido ai componenti forniti nella versione base del gioco: i segnalini (che siano fiala, malattia o focolaio), il bottone Livello di Contaminazione, le carte e le pedine sono tutti di buonissima fattura e contribuiscono a dare senso al tema, entro ovvi limiti. Il tabellone, infine, è quanto di più essenziale si potrebbe volere da un gioco simile e funziona proprio per la sua cristallina semplicità.

Visto così, per quanto grazie a giochi come Plauge Inc. (che sostanzialmente ribalta il concept di Pandemia, mettendo nelle mani del giocatore la malattia anziché la cura) possa essere familiare anche ai giocatori più occasionale, Pandemia pare un gioco noioso e strettamente legato alla scienza piuttosto che all'azione; niente di più sbagliato. Giocandolo, infatti, si viene subito catapultati nel mezzo del tema e si percepisce praticamente da subito l'idea che qualcosa di pericoloso si stia diffondendo in maniera non così lenta e che noi giocatori siamo l'unico modo per arrestarlo. Il vero "twist" dato dal gioco è il ritmo: nessuno sta mai fermo o troppo occupato a pensare al proprio ma è sempre trascinato dentro il turno altrui e coinvolto direttamente nelle varie strategie. Non è un gioco perfetto, però: come la maggior parte dei giochi cooperativi la sensazione è quella che si stia giocando a qualcosa di più simile a un puzzle al quale tutti aggiungono un pezzetto piuttosto che a un vero e proprio boardgame (e questo non è necessariamente un male, ma è bene precisare onde evitare spiacevoli sessioni di gioco in cui uno o più giocatori si annoiano dopo pochi turni perché si aspettavano qualcosa di più impegnativo), alcuni accostamenti di personaggi rendono il gioco fin troppo semplice (sebbene la difficoltà sia sempre molto alta e la possibilità di perdere è dietro l'angolo anche a partita quasi conclusa) e probabilmente non vorrete rigiocare una seconda partita immediatamente dopo la conclusione della prima. Non sono difetti insormontabili, per qualcuno non saranno nemmeno difetti (per me lo sono in minima parte), ma è giusto rendere giustizia a ciò che il gioco riesce a dare sia di positivo che di negativo.


In coclusione: se mai vi capitasse di vedere la scatola di Pandemia a casa di un amico o in un locale che permettere di giocare giochi in prova dategli una chance e dedicate i 45/60 minuti a questo bellissimo cooperativo che si spiega in pochi minuti e che vi divertirà da subito.

-Luca

giovedì 23 aprile 2015

Tutto fa brodo


"Gli ultimi 3 anni di politica si sono basati sul niente, i 4 leader più importanti hanno giocato a rincorrersi dicendo praticamente le stesse identiche cose ("non bisogna fare come i politici", "basta con questa politica vecchia", "la gente vuole essere protagonista") condite da pensieri che, apparentemente, sembrano creare un'identità (Renzi con il neo-riformismo democristiano, Salvini con il razzismo e il vittimismo, Grillo con gli strilli e i vaffanculo e Berlusconi ancora convinto che esistano i rossi e la sinistra in Parlamento) ma che fanno parte dello stesso bieco populismo commovente e sensazionista. Le persone si sentono coinvolte senza comprendere che tutto questo è pensato per allontanare la base dal centro nevralgico delle direttive, perché tanto quelli là sono tutti ladri e lo dice anche il leader quindi crediamo in lui e gli facciamo fare quello che vuole e poco importa se le facce sono sempre quelle. Questa immagine è il perfetto sunto di quello che significa l'impegno e l'attivismo politico in Italia nel 2015, il nulla calcolato su valori che in soldoni non hanno nessuna valenza." scrissi così la settimana scorsa sul mio profilo personale su Facebook quando vidi questa immagine pubblicata sulla pagina ufficiale del Parlamentare Europeo e attuale segretario della Lega Nord, Matteo Salvini. Perché questo incipit, vi chiederete voi?Perché è necessario, prima ancora di andare ad analizzare il fulcro del discorso, partire dal concetto principe che lega (gioco di parole orribile e assolutamente non volontario, ma necessario) tutto quanto il ragionamento derivato: la politica attuale è fatta di ridondanze, qualunquismi, generalizzazioni e frasi fatte per dare l'illusione che elettorato ed eletti siano vicini quando, di fatto, tutto questo li allontana mettendo in mano agli eletti tutto il potere decisionale che gli elettori cedono deliberatamente perché "ehi la pensano come noi, sono troppo giusti" dimenticando che la politica è partecipazione prima che manifestazione di un pensiero, non delega.

Come avrete potuto intuire, quindi, la tesi che cerco di far valere con quanto scritto qui è che quanto sta facendo la Lega Nord da quando Salvini ha preso il comando in poi non è entrare nel cuore della gente e aprirsi al confronto ma, anzi, usare piccoli mezzucci contraddittori per allargare l'elettorato; nel nome del più bieco dei "tutto fa brodo". La parola "Nord" all'interno del nome del partito, che ancora non è stata rimossa, ci ricorda di quel bel periodo fatto di dita medie alzate al cielo, rutti, scoreggie, "Roma ladrona", "terroni di merda" e via dicendo; periodo che, invero, non è mai del tutto finito. Sì, è vero sono passati i bei tempi andati e la Lega post-Bossi non ci offre più le perle di una volta ma non va dimenticato che viviamo comunque nel paese più campanilista e anti-unità collettiva del pianeta e quindi come fare per svecchiare il contenuto politico?Semplice: pigliamocela con gli altri, quelli che per non si sa bene quale motivo in Italia non ci dovrebbero stare, così fingiamo che ci siamo redenti e ora crediamo in una unità nazionale che non solo non esiste ma che fondamentalmente non vogliamo. Ma come facciamo a far bella figura, soprattutto dopo tutti i casini che sono successi?Ci mettiamo una bella faccia nuova, giovane, incazzata e anche un po' fascista così i romani fomentati di CasaPound si ringalluzziscono e per pigliare due voti ci seguono a ruota. Un piano perfetto, mancava solo un modo di comunicare adeguato.


Comunicazione. Il problema era la comunicazione. Avevano il leader giovane e pulito, di quelli pseudo-rottamatori che van di moda adesso (e che, a quanto pare devono avere tutti lo stesso nome di battesimo) ma si percipiva il bisogno di un linguaggio giusto ed in linea con il momento e diamine se ci sono riusciti. Se sbirciassimo la già menzionata pagina Facebook di Salvini noteremmo, infatti, l'uso di un italiano semplice, senza troppi fronzoli e arrampicamenti grammaticali complessi, a cui segue una risposta per le righe da parte dei seguaci del leader di partito: razzismo da due soldi, ragionamenti ridodanti e slegati completamente da quello principale. Insomma, un successo mediatico incredibile e preoccupante allo stesso tempo (specialmente per chi, come me, studia i processi comunicativi)  dato l'assenza di precedenti equiparabili (sì ci sarebbe Beppe Grillo, ma almeno lì due idee c'erano e infatti ora non se li fila nessuno). Successo sensazionista che si estende non solo nel web diventando sempre più preoccupante e incontrollabile: è di qualche ora fa questo video che anticipa la puntata di stasera di AnnoZero nel quale viene mostrato come il modus commovente di Salvini sia stato fiutato come affare dai giornalisti che saltano tranquillamente sul carro. Questo è solo uno degli esempi, ce ne sarebbero molti altri (come la gaffe di ieri notte a riguardo di alcune dichiarazioni di Gianni Morandi), del cattivo e ingiusto metodo propagandistico di Salvini fatto di odio verso il diverso e di selfie con i "cittadini onesti" e quello che state leggendo è solo una goccia in un mare che sicuramente non scatenerà una tempesta ma che, almeno per un po', mi mette l'anima in pace.

-Luca

mercoledì 8 aprile 2015

"Fuck them and their law!"



"La musica elettronica è morta, evviva la musica elettronica"; è più o meno questo che ho pensato quando ho scoperto che un termine generico e squisitamente didascalico come "EDM" (che sta ad indicare "electronic dance music") era stato trasformato in un genere, un modo di suonare e pensare la musica univoco e specifico. Trasformare un indicazione, un suggerimento (del tipo "ehi guarda che quello che stai ascoltando serve a farti muovere il culo, non stare a farti troppe domande sulla sperimentazione"), in un'unica e sola idea di dance (generalmente quella commerciale contemporanea, dalla big room alla trap/dubstep/techno/qualunquerobacommercialeconlacassadrittaeundrop) è solo la conferma di quello che belle personcine come Avicii, Martin Garrix, David Guetta, Bob Sinclair (che invero ha fatto un album più che decente), Skrillex e tutta quella gente che intasa il main stage dell'UMF (ed i milioni di DJ che li imitano e che ogni giorno spuntano come funghi): ridurre la concezione di ballabile ad un'unica e sola idea, dimenticandosi completamente della varietà e della capacità tecnica in favore di un'esaltazione estetica estemporanea e dimenticabile in una manciata di minuti poiché completamente esente da attitudine e cultura. Non sanno cosa fanno, non sanno cosa si mettono addosso ma lo fanno; perché lo fanno tutti. Tutti tranne uno: Liam Howlett, leader e mente del progetto ventennale "The Prodigy", che presenta un nuovo lavoro della sua band a distanza di 6 anni dal precedente.


"The Day Is My Enemy", questo il nome del sesto album di Liam Howlett, Maxim e Keith Flint, è indubbiamente il lavoro più impattante del gruppo dell'era post-Fat perché ha una cosa che tutti i progetti nati da 10 anni a questa parte non hanno: l'attitudine. Il voler essere un disco deliberatamente punk nel modo di porsi si traduce in un gigantesco dito medio ai "preset-djs" e questo è l'ordine secondo il quale l'album va valutato. Non si tratta di un disco perfetto, anzi la quasi stragrande maggioranza dei suoni e delle idee (incluse collaborazioni che gridano al mondo la provenienza popolare del progetto firmate con l'aiuto di Noel Gallagher e palesi citazioni a band come i Rage Against The Machine) suonano fuori dal tempo ma non in maniera auto-referenziale e fine a sé stessa come nel precedente "Invaders Must Die", ma di un disco decisamente significativo: purtroppo non riuscirà ad adempire al nobilissimo intento che il suo autore si è posto ma quantomeno invierà un messaggio. Messaggio percepibile prima di tutto dalla scelta di auto-produrre completamente tutto quanto e distribuirlo in maniera autonoma, come avrebbero fatto le persone (lo stesso Howlett compreso) che hanno dato vita ad un movimento che è passato dall'essere libero e illimitato a limitarsi da solo, arrivando a ghettizzarsi per raggiungere più persone possibili (e se poi a quelle persone non interessa davvero quello che stanno ballando/ascoltando non importa, ormai hanno pagato). Non mi sono fermato troppo ad analizzare il suono, che è il solito incazzatissimo suono dei Prodigy e che non ha bisogno di presentazioni o particolari infiocchettamenti dopo 20 anni di onoratissima carriera, di proposito: perché non è il suono a farla da padrone qui ma è il messaggio il vero protagonista. Ma il messaggio non è abbastanza: perché in album di musica quel che conta è la musica (e quindi si ritorna a quanto detto prima, suona bene ma è un po' "fossilizzato"). Rendiamo comunque giustizia a ciò che è stato presentato: perché solo loro, i Prodigy, potevano permettersi di proporre un quasi concept album che si porta dietro una condanna così feroce. Ed era ora che qualcuno dicesse, parafrasando una loro vecchia canzone, che la "legge" della musica dance attuale è una stronzata e che vada fottuta a più riprese.

-Luca


venerdì 20 febbraio 2015

Il modo migliore per fare rap è smettere di farlo




Potrei sbagliarmi ma sembra quasi che quando si parla di rap ci si scorda quasi che prima di tutto si parla di musica. Le ragioni culturali, il fatto che attualmente un rapper o uno youtuber abbiano più risonanza di qualunque altro personaggio abbia un minimo di voce (o pretenda di averla) nell'epoca in cui viviamo, oscurano qual è il fulcro principale di una canzone: deve suonare bene, il fatto che abbia un testo che chi lo ascolta trova (spesso erroneamente) ben scritto è completamente secondario. Poi escono dischi come Laska di Mecna, ed il mondo ti pare meno grigio e inizi a vedere una certa luce in fondo al tunnel.
Mecna è quel classico tipo di artista, tratto tipico di tutto il suo entourage composto dalle uniche vere proposte fresche del panorama quasi-mainstream italiano, attento ed interessato sul serio: è un grafico pubblicitario di talento, è un ascoltatore appassionato con un orecchio sempre teso verso le avanguardie musicali del suo genere ma è anche un liricista non particolarmente eccelso, perché essere sopra una media composta dal nulla non fa di te uno scrittore. Insomma chi segue Mecna e il suo giro di "hipster illuminati dell'hip-hop" sa benissimo di cosa sto parlando, ma va comunque fatto un appunto: quello proposto è rap consciuos più nel suono che nel contenuto. Ed è giusto che sia così. Perché serviva qualcuno che spostasse l'ago della bilancia, perché per ispirarsi agli Stati Uniti (prendendo ad esempio gli artisti meritevoli per davvero) non basta dire di averlo fatto. E quindi cos'ha quest'album di così tanto importante? Le ispirazioni, si sentono echi di Drake e James Blake su tutti, e le produzioni, affidate tanto a artisti strettamente collegati alla scena quanto a nuove leve del suono elettronico come Yakamoto Kotzuga. Qui ci si vuole lasciare, quasi, alle spalle il rap composto da testi di finta formazione che con la frase fatta modello Bacio Perugina fa da ispirazione al ragazzino che ondeggia la sua testa davanti ad uno schermo del pc o che riempie i locali ai concerti di questi artisti per poi passare quella manciata di ore a fissare il telefono con il quale sta riprendendo per intero la performance che avviene a pochi metri dal suo naso. Un rap che non è più rap, o meglio non solo rap, ma è molto più musica in senso stretto: attuale nel suono e complessa nel concetto, non nel testo. Si riconferma quindi l'intento del giro Blue Nox/Unlimited Struggle: migliorare il genere svuotandolo dagli orpelli di genere; Laska è il seguito naturale di un tracciato cominciato con tanti dischi precedenti (come lo stesso Disco Inverno di Mecna, che forse nei testi è meglio pensato e realizzato di questo ultimo lavoro) e reso palese con Orchidee di Ghemon quasi un anno fa.
Una prova che ha delle sbavature, perché comunque anche se si sposta il centro dell'attenzione serve un bilanciamento tra quello che si racconta ed il suo contesto, ma che consolida un percorso, sia del'artista singolo che di tutti quelli ad esso collegati, che merita ogni consenso. La scena ha (ri)trovato le persone che riescono a rappresentarla sempre in ogni loro iterazione. Amen.

-Luca


sabato 14 febbraio 2015

Generalismo, generalisti e generalizazzioni - #favijnonmirappresenta



Premetto che quanto state per leggere non è una paraculata banalina in difesa della, cosiddetta, "arte" così perché bisogna farlo, perché serve una motivazione (senza argomenti) per giustificare le proprie perdite di tempo, né tanto meno ha la funzione di creare un movimento internettiano (perché sappiamo già com'è andata a finire quella volta là): prendetelo come un ragionamento, sì è vero è tutto riconducibile ad una causa comune ma nessuno qui vuole fare il leader carismatico. Il punto chiave è smuovere le cose, perché siamo arrivati ad un punto in cui abbiamo gli strumenti ed i mezzi per dimostrare davvero qualcosa senza più ridurci a dare degli ignoranti a destra e a manca ma analizzando punto per punto le questioni, ponendo tutto in un contesto e introducendo dei concetti che per credenza comune, sia esterna che interna, sono solitamente lontani dal medium.



Partiamo con qualche cenno storico, perché per creare un contesto è sempre necessario saperlo collocare in un periodo citando tutti gli avvenimenti del caso: negli ultimi mesi fioccano, letteralmente, le lamentele del giornalismo (sia stampato che televisivo) nei confronti di "quel gioco per bambini dove vinci se investi qualcuno" (citazione che attribuirò tra qualche riga) meglio conosciuto come Grand Theft Auto V. Ci ha provato il Corriere, per poi riceve una seria ed intelligente risposta dal Corriere stesso; poi è stato il turno di Striscia, che tramite Laudadio tirò fuori un servizio lacunoso e ridondante pieno zeppo di errori grossolani ed evitabili ma che fanno audience facile nel target emozionato ed emozionabile a cui il programma si riferisce e infine c'è stato anche un articolo su La Repubblica che richiedeva interventi da parte del presidente del Consiglio dei Ministri Matteo Renzi contro tal videogioco, e anche qui ci sono stati sputtanamenti interni. Chi mancava all'appello?Ovviamente il massimo del generalismo, il non-plus ultra dell'informazione povera e spicciola, notizie semplici pensate da persone semplici per gente semplice: ovviamente sto parlando di Uno Mattina, e chi lo avrebbe mai detto dato che ho soltanto messo un'immagine gigante della Isoardi (ultimamente al centro del ciclone grazie alle sue particolari e assolutamente condivisibili frequentazioni) e di Franco di Mare a inizio paragrafo. Fin qui nessun problema, siamo ben abituati ad un livello non particolarmente elevato sia nei temi che nei modi con cui si fa informazione da quelle parti, quindi sì ci si indigna per cinque minuti ma la cosa finisce lì; esattamente come per gli altri articoli/servizi proposti precedentemente lasciano il tempo che trovano sia nella mente dello spettatore/lettore medio che nel ricchissimo palinsesto generalista, o nelle fornitissime edicole,  italiano. Ma se a dire la citazione non attribuita di cui sopra fosse un'intellettuale di un livello discreto come Dacia Maraini?E se come contraltare per discutere contro i cattivoni della tv che sono ignoranti e dicono che i videogiochi sono "figli del Dimonio" chiamassero uno che con l'informazione e la cultura del videogioco ci azzecca come ci azzeccavo io con la matematica alle superiori?Beh, è presto detto, la cosa prende una piega pericolosissima.


Chi vi scrive, ve lo dico senza nessun problema, trovava rispettabile il lavoro di FaviJ: era una cosa che non mi interessava perché non facevo parte del suo target, lui non ha mai voluto far parte di nessuna polemica internettiana da due soldi (che lo riguardasse o meno), ed ha sempre avuto l'onestà di sapere di non aver successo per il tema (di cui credo pure lui si sia accorto non essere un esperto) ma per il modo in cui si pone (sia verso i videogiochi sia verso il suo pubblico, soprattutto verso il suo pubblico). Caso vuole che la notorietà, per chi avesse inavvertitamente chiuso gli occhi ogni volta che ha aperto la home di Youtube il Nostro è attualmente il videomaker con il maggior numero di iscritti tra quelli italiani, lo abbia spinto oltre ponendo sotto una luce che non solo non gli appartiene ma che ostacola tutta una serie di persone che ha studiato strenuamente il medium per farne un lavoro (nel video possiamo sentire Lorenzo, vero nome di FaviJ, intimorito dalla situazione, quasi bloccato e incapace di creare un'argomentazione seria è la cosa fa intuire che il ragazzo non sia stato minimamente introdotto alla questione né tanto meno alle cose, gravissime e facilmente confutabili, dette da Di Mare e dalla Maraini prima del suo intervento). È questo il problema fondamentale della questione: stiamo, tutti noi sì, legittimando e dando spazi a persone che sono inadeguate. Se l'opinione pubblica continua a vedere il videogioco come una cosa per bambini e non come un mezzo come un altro con i suoi differenti target possibili, con i suoi "generi", la colpa è anche nostra; non solo della televisione (o del giornale) ignorante gestito da persone avanti con gli anni. Noi, prima di loro, dobbiamo iniziare ad intendere il videogioco come quello che è; soltanto dopo possiamo permetterci di chiedere che gli venga riconosciuto il valore.

Per questo motivo mi sento di sposare la causa #favijnonmirappresenta e vi consiglio la visione di questo (dove viene fornita una intelligentissima riflessione sulla differenza tra intrattenimento ed informazione, che va sempre sorretta da uno studio e da una conoscenza approfondita e sincera del campo qualunque esso sia) video: perché spero che le cose possano cambiare sia come appassionato di videogiochi che come, spero, futuro giornalista di settore ma non che cambino soltanto da una parte. Se volete che il vostro passatempo sia riconosciuto, iniziate a riconoscerlo voi stessi, prima. Non mi sono soffermato di proposito in difesa di GTA o del videogioco in genere, perché non ce n'è bisogno; perché non servono discussioni infinite sul fatto che quello sia intrattenimento per adulti se quando il negoziante nega l'acquisto del nuovo videogioco violento al ragazzino il padre lo minaccia di sfasciargli il negozio per poi appellarsi alle autorità, o ai giornalisti, qualora scoprisse che forse il negoziante aveva ragione.

-Luca