"La musica elettronica è morta, evviva la musica elettronica"; è più o meno questo che ho pensato quando ho scoperto che un termine generico e squisitamente didascalico come "EDM" (che sta ad indicare "electronic dance music") era stato trasformato in un genere, un modo di suonare e pensare la musica univoco e specifico. Trasformare un indicazione, un suggerimento (del tipo "ehi guarda che quello che stai ascoltando serve a farti muovere il culo, non stare a farti troppe domande sulla sperimentazione"), in un'unica e sola idea di dance (generalmente quella commerciale contemporanea, dalla big room alla trap/dubstep/techno/qualunquerobacommercialeconlacassadrittaeundrop) è solo la conferma di quello che belle personcine come Avicii, Martin Garrix, David Guetta, Bob Sinclair (che invero ha fatto un album più che decente), Skrillex e tutta quella gente che intasa il main stage dell'UMF (ed i milioni di DJ che li imitano e che ogni giorno spuntano come funghi): ridurre la concezione di ballabile ad un'unica e sola idea, dimenticandosi completamente della varietà e della capacità tecnica in favore di un'esaltazione estetica estemporanea e dimenticabile in una manciata di minuti poiché completamente esente da attitudine e cultura. Non sanno cosa fanno, non sanno cosa si mettono addosso ma lo fanno; perché lo fanno tutti. Tutti tranne uno: Liam Howlett, leader e mente del progetto ventennale "The Prodigy", che presenta un nuovo lavoro della sua band a distanza di 6 anni dal precedente.
"The Day Is My Enemy", questo il nome del sesto album di Liam Howlett, Maxim e Keith Flint, è indubbiamente il lavoro più impattante del gruppo dell'era post-Fat perché ha una cosa che tutti i progetti nati da 10 anni a questa parte non hanno: l'attitudine. Il voler essere un disco deliberatamente punk nel modo di porsi si traduce in un gigantesco dito medio ai "preset-djs" e questo è l'ordine secondo il quale l'album va valutato. Non si tratta di un disco perfetto, anzi la quasi stragrande maggioranza dei suoni e delle idee (incluse collaborazioni che gridano al mondo la provenienza popolare del progetto firmate con l'aiuto di Noel Gallagher e palesi citazioni a band come i Rage Against The Machine) suonano fuori dal tempo ma non in maniera auto-referenziale e fine a sé stessa come nel precedente "Invaders Must Die", ma di un disco decisamente significativo: purtroppo non riuscirà ad adempire al nobilissimo intento che il suo autore si è posto ma quantomeno invierà un messaggio. Messaggio percepibile prima di tutto dalla scelta di auto-produrre completamente tutto quanto e distribuirlo in maniera autonoma, come avrebbero fatto le persone (lo stesso Howlett compreso) che hanno dato vita ad un movimento che è passato dall'essere libero e illimitato a limitarsi da solo, arrivando a ghettizzarsi per raggiungere più persone possibili (e se poi a quelle persone non interessa davvero quello che stanno ballando/ascoltando non importa, ormai hanno pagato). Non mi sono fermato troppo ad analizzare il suono, che è il solito incazzatissimo suono dei Prodigy e che non ha bisogno di presentazioni o particolari infiocchettamenti dopo 20 anni di onoratissima carriera, di proposito: perché non è il suono a farla da padrone qui ma è il messaggio il vero protagonista. Ma il messaggio non è abbastanza: perché in album di musica quel che conta è la musica (e quindi si ritorna a quanto detto prima, suona bene ma è un po' "fossilizzato"). Rendiamo comunque giustizia a ciò che è stato presentato: perché solo loro, i Prodigy, potevano permettersi di proporre un quasi concept album che si porta dietro una condanna così feroce. Ed era ora che qualcuno dicesse, parafrasando una loro vecchia canzone, che la "legge" della musica dance attuale è una stronzata e che vada fottuta a più riprese.
-Luca
-Luca
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