venerdì 20 febbraio 2015

Il modo migliore per fare rap è smettere di farlo




Potrei sbagliarmi ma sembra quasi che quando si parla di rap ci si scorda quasi che prima di tutto si parla di musica. Le ragioni culturali, il fatto che attualmente un rapper o uno youtuber abbiano più risonanza di qualunque altro personaggio abbia un minimo di voce (o pretenda di averla) nell'epoca in cui viviamo, oscurano qual è il fulcro principale di una canzone: deve suonare bene, il fatto che abbia un testo che chi lo ascolta trova (spesso erroneamente) ben scritto è completamente secondario. Poi escono dischi come Laska di Mecna, ed il mondo ti pare meno grigio e inizi a vedere una certa luce in fondo al tunnel.
Mecna è quel classico tipo di artista, tratto tipico di tutto il suo entourage composto dalle uniche vere proposte fresche del panorama quasi-mainstream italiano, attento ed interessato sul serio: è un grafico pubblicitario di talento, è un ascoltatore appassionato con un orecchio sempre teso verso le avanguardie musicali del suo genere ma è anche un liricista non particolarmente eccelso, perché essere sopra una media composta dal nulla non fa di te uno scrittore. Insomma chi segue Mecna e il suo giro di "hipster illuminati dell'hip-hop" sa benissimo di cosa sto parlando, ma va comunque fatto un appunto: quello proposto è rap consciuos più nel suono che nel contenuto. Ed è giusto che sia così. Perché serviva qualcuno che spostasse l'ago della bilancia, perché per ispirarsi agli Stati Uniti (prendendo ad esempio gli artisti meritevoli per davvero) non basta dire di averlo fatto. E quindi cos'ha quest'album di così tanto importante? Le ispirazioni, si sentono echi di Drake e James Blake su tutti, e le produzioni, affidate tanto a artisti strettamente collegati alla scena quanto a nuove leve del suono elettronico come Yakamoto Kotzuga. Qui ci si vuole lasciare, quasi, alle spalle il rap composto da testi di finta formazione che con la frase fatta modello Bacio Perugina fa da ispirazione al ragazzino che ondeggia la sua testa davanti ad uno schermo del pc o che riempie i locali ai concerti di questi artisti per poi passare quella manciata di ore a fissare il telefono con il quale sta riprendendo per intero la performance che avviene a pochi metri dal suo naso. Un rap che non è più rap, o meglio non solo rap, ma è molto più musica in senso stretto: attuale nel suono e complessa nel concetto, non nel testo. Si riconferma quindi l'intento del giro Blue Nox/Unlimited Struggle: migliorare il genere svuotandolo dagli orpelli di genere; Laska è il seguito naturale di un tracciato cominciato con tanti dischi precedenti (come lo stesso Disco Inverno di Mecna, che forse nei testi è meglio pensato e realizzato di questo ultimo lavoro) e reso palese con Orchidee di Ghemon quasi un anno fa.
Una prova che ha delle sbavature, perché comunque anche se si sposta il centro dell'attenzione serve un bilanciamento tra quello che si racconta ed il suo contesto, ma che consolida un percorso, sia del'artista singolo che di tutti quelli ad esso collegati, che merita ogni consenso. La scena ha (ri)trovato le persone che riescono a rappresentarla sempre in ogni loro iterazione. Amen.

-Luca


sabato 14 febbraio 2015

Generalismo, generalisti e generalizazzioni - #favijnonmirappresenta



Premetto che quanto state per leggere non è una paraculata banalina in difesa della, cosiddetta, "arte" così perché bisogna farlo, perché serve una motivazione (senza argomenti) per giustificare le proprie perdite di tempo, né tanto meno ha la funzione di creare un movimento internettiano (perché sappiamo già com'è andata a finire quella volta là): prendetelo come un ragionamento, sì è vero è tutto riconducibile ad una causa comune ma nessuno qui vuole fare il leader carismatico. Il punto chiave è smuovere le cose, perché siamo arrivati ad un punto in cui abbiamo gli strumenti ed i mezzi per dimostrare davvero qualcosa senza più ridurci a dare degli ignoranti a destra e a manca ma analizzando punto per punto le questioni, ponendo tutto in un contesto e introducendo dei concetti che per credenza comune, sia esterna che interna, sono solitamente lontani dal medium.



Partiamo con qualche cenno storico, perché per creare un contesto è sempre necessario saperlo collocare in un periodo citando tutti gli avvenimenti del caso: negli ultimi mesi fioccano, letteralmente, le lamentele del giornalismo (sia stampato che televisivo) nei confronti di "quel gioco per bambini dove vinci se investi qualcuno" (citazione che attribuirò tra qualche riga) meglio conosciuto come Grand Theft Auto V. Ci ha provato il Corriere, per poi riceve una seria ed intelligente risposta dal Corriere stesso; poi è stato il turno di Striscia, che tramite Laudadio tirò fuori un servizio lacunoso e ridondante pieno zeppo di errori grossolani ed evitabili ma che fanno audience facile nel target emozionato ed emozionabile a cui il programma si riferisce e infine c'è stato anche un articolo su La Repubblica che richiedeva interventi da parte del presidente del Consiglio dei Ministri Matteo Renzi contro tal videogioco, e anche qui ci sono stati sputtanamenti interni. Chi mancava all'appello?Ovviamente il massimo del generalismo, il non-plus ultra dell'informazione povera e spicciola, notizie semplici pensate da persone semplici per gente semplice: ovviamente sto parlando di Uno Mattina, e chi lo avrebbe mai detto dato che ho soltanto messo un'immagine gigante della Isoardi (ultimamente al centro del ciclone grazie alle sue particolari e assolutamente condivisibili frequentazioni) e di Franco di Mare a inizio paragrafo. Fin qui nessun problema, siamo ben abituati ad un livello non particolarmente elevato sia nei temi che nei modi con cui si fa informazione da quelle parti, quindi sì ci si indigna per cinque minuti ma la cosa finisce lì; esattamente come per gli altri articoli/servizi proposti precedentemente lasciano il tempo che trovano sia nella mente dello spettatore/lettore medio che nel ricchissimo palinsesto generalista, o nelle fornitissime edicole,  italiano. Ma se a dire la citazione non attribuita di cui sopra fosse un'intellettuale di un livello discreto come Dacia Maraini?E se come contraltare per discutere contro i cattivoni della tv che sono ignoranti e dicono che i videogiochi sono "figli del Dimonio" chiamassero uno che con l'informazione e la cultura del videogioco ci azzecca come ci azzeccavo io con la matematica alle superiori?Beh, è presto detto, la cosa prende una piega pericolosissima.


Chi vi scrive, ve lo dico senza nessun problema, trovava rispettabile il lavoro di FaviJ: era una cosa che non mi interessava perché non facevo parte del suo target, lui non ha mai voluto far parte di nessuna polemica internettiana da due soldi (che lo riguardasse o meno), ed ha sempre avuto l'onestà di sapere di non aver successo per il tema (di cui credo pure lui si sia accorto non essere un esperto) ma per il modo in cui si pone (sia verso i videogiochi sia verso il suo pubblico, soprattutto verso il suo pubblico). Caso vuole che la notorietà, per chi avesse inavvertitamente chiuso gli occhi ogni volta che ha aperto la home di Youtube il Nostro è attualmente il videomaker con il maggior numero di iscritti tra quelli italiani, lo abbia spinto oltre ponendo sotto una luce che non solo non gli appartiene ma che ostacola tutta una serie di persone che ha studiato strenuamente il medium per farne un lavoro (nel video possiamo sentire Lorenzo, vero nome di FaviJ, intimorito dalla situazione, quasi bloccato e incapace di creare un'argomentazione seria è la cosa fa intuire che il ragazzo non sia stato minimamente introdotto alla questione né tanto meno alle cose, gravissime e facilmente confutabili, dette da Di Mare e dalla Maraini prima del suo intervento). È questo il problema fondamentale della questione: stiamo, tutti noi sì, legittimando e dando spazi a persone che sono inadeguate. Se l'opinione pubblica continua a vedere il videogioco come una cosa per bambini e non come un mezzo come un altro con i suoi differenti target possibili, con i suoi "generi", la colpa è anche nostra; non solo della televisione (o del giornale) ignorante gestito da persone avanti con gli anni. Noi, prima di loro, dobbiamo iniziare ad intendere il videogioco come quello che è; soltanto dopo possiamo permetterci di chiedere che gli venga riconosciuto il valore.

Per questo motivo mi sento di sposare la causa #favijnonmirappresenta e vi consiglio la visione di questo (dove viene fornita una intelligentissima riflessione sulla differenza tra intrattenimento ed informazione, che va sempre sorretta da uno studio e da una conoscenza approfondita e sincera del campo qualunque esso sia) video: perché spero che le cose possano cambiare sia come appassionato di videogiochi che come, spero, futuro giornalista di settore ma non che cambino soltanto da una parte. Se volete che il vostro passatempo sia riconosciuto, iniziate a riconoscerlo voi stessi, prima. Non mi sono soffermato di proposito in difesa di GTA o del videogioco in genere, perché non ce n'è bisogno; perché non servono discussioni infinite sul fatto che quello sia intrattenimento per adulti se quando il negoziante nega l'acquisto del nuovo videogioco violento al ragazzino il padre lo minaccia di sfasciargli il negozio per poi appellarsi alle autorità, o ai giornalisti, qualora scoprisse che forse il negoziante aveva ragione.

-Luca


domenica 8 febbraio 2015

Quando i francesi fanno gli americani (e sono quasi più bravi)



Potrei sbagliarmi se dico che gli zombies iniziano a saturare in maniera abbastanza pesante la scena dell'intrattenimento da quando un certo tizio ha pensato di cedere alla AMC i diritti per la realizzazione di una serie tv su un fumettino semi-sconosciuto da lui realizzato. No, in realtà non mi sbaglio; da quando esiste la versione televisiva di The Walking Dead il fenomeno de "i morti rimorti" ha preso più piede della crescita di finti fan di Charlie Hebdo post-attentato. Insomma l'ossessione per la dieta a base di cervelli e la camminata carica di nonchalance dei ritornati alla vita è parecchio di moda, è un dato di fatto. E chi sono i mangialumache, i nostri cugini d'oltralpe, per esimersi dal cogliere la palla al balzo e saltare sul carro dei vincitori così carichi di verve e dalla parlantina sempre piena di ricche sfumature linguistiche? Ovviamente nessuno, ma cosa succederebbe se quegli stessi francesi prendessero il tema e lo rivoltassero in maniera tale da tirar fuori la cosa più incredibilmente umana su di esso? Beh caccerebbero fuori dal loro cilindro tutto formaggi puzzolenti e vini costosi "Les Revenants", mandando a stendere allegramente gli americani in soli otto episodi.

Come fare, si saranno chiesti gli sceneggiatori della serie (che è tratta da un film precedente di cui, purtroppo, chi vi scrive non sa molto), a rendere fresco il soggetto così tanto abusato e trito?Semplice, rendendo i morti "vivi" per davvero. Infatti definire "zombie" le persone che tornano alla vita in questa serie compiono più una resurrezione in senso letterale del termine, tornando esattamente nelle stesse condizioni fisiche e mentali in cui erano un secondo prima di morire, che il classico ritorno dell'immaginario horrorifico contemporaneo. E sta tutta qui la chiave del successo nel raggiungimento dell'obiettivo di questo show televisivo francese: proporre un concetto che lo spettatore ha interiorizzato molto bene in maniera completamente differente, ponendolo sotto una luce più intimista e drammatica che non spaventosa e pericolosa. I morti sono spaventati della loro situazione esattamente come lo sono i vivi, lo spiazzamento della situazione destabilizza tutti quanti allo stesso modo senza fare eccezioni. L'approfondimento delle emozioni è sorretto da una scrittura di fattura decisamente all'altezza del tipo di atmosfera che si vuole ricreare, che forse lo avvicina più a Twin Peaks che non a The Walking Dead. Ne sono d'esempio sia l'ambientazione, un minuscolo paesino di pochissime anime situato in riva a un lago dove tutti conoscono tutti e ognuno nasconde diverse ombre anche a sé stesso, che le situazioni che si creano tra i personaggi (come il bellissimo rapporto tra le due gemelle Camille e Lenà, la prima morta da quindicenne quattro anni prima degli eventi narrati nella serie e la seconda che ormai ha quasi superato l'adolescenza). Come ho già detto è l'introspezione a farla da padrone qui:piuttosto che puntare sulla caccia ai morti che minacciano la sopravvivenza dei vivi (mangiando e trasformando in zombie, come la prassi suggerisce) ci si interroga sul vuoto lasciato dal decesso di essi e su cosa significhi riaverli tra di noi.


Simbolismo, regia di primissimo ordine, cast all'altezza (anche se, se vi venisse il pensiero di vederlo in lingua incappereste con una delle lingue più fastidiose del creato secondo il mio modestissimo parere) e una colonna sonora curata da niente popò di meno che il signor Mogwai e i suoi compagni di ventura sono le cifre stilistiche che Canal+ e la produzione di questa serie ha scelto per raccontare quello che, finora, è il miglior prodotto (televisivo) sul tema. Chapeau, io nel mentre attendo la seconda stagione che sta ritardando da più di un anno ad arrivare sugli schermi degli affezionati a questo prodotto.

-Luca